giovedì 10 gennaio 2008

Salute e Sport, un binomio necessario e possibile






L'anno appena conclusosi ha fatto registrare ancora una volta l'annosa piaga costituita da una fra le più particolari morti sul "lavoro" mai esistite, quelle di chi fa sport. Dai calciatori Antonio Puerta (nazionale spagnolo in forza al Siviglia) e Phil O'Donnell (capitano degli scozzesi del Motherwell),a svariati amatori,tra cui il 18 enne arbitro veronese Lorenzo Modena, molti, troppi esseri umani sono morti sul campo. Nel ventunesimo secolo è francamente inaccettabile che qualsiasi agonista, a qualunque livello, in qualunque disciplina, si trovi a dover rimettere il proprio bene più grande, la vita, perchè i controlli sanitari a cui si era sottoposto non erano accurati. Si tratta di un atto d'incoscienza talvolta inconsapevole, che tanto quanto la pratica del doping mina dalle fondamenta una delle attività maggiormente salutari che possano riguardare l'uomo, l'attività motoria. Va tenuto presente che ancor prima d'essere un modo per far guadagnare denaro ad atleti, manager e pubblicitari, ancor prima che uno spettacolo da sparare a tutto dolby surround sul proprio plasma di casa, lo sport è funzionale al benessere, nasce per dare un corretto equilibrio psicofisico all'individuo, e deve essere svolto in totale sicurezza. La pratica sportiva ha come proprio centro propulsore l'atleta e l'esigenza dello stesso di essere clinicamente monitorato in maniera soddisfacente per tutta la carriera. Questo diritto, spesso non esercitato correttamente, spetta al professionista come al dilettante che "ramazza duro" nei campetti e nei palazzetti di periferia. Si tratta anzitutto di uno svago, e per definizione è assurdo morire per una cosa piacevole. Dopo questa personale premessa, riporto di seguito l'intervista rilasciata pochi giorni fa alla Gazzetta dello Sport dal Dottor Mario Brozzi (foto sopra), da 8 anni medico sociale dell' A.S. Roma, che si fa promotore di una splendida iniziativa a riguardo (per chi volesse approfondire, ecco il suo sito: www.mariobrozzi.it),animato anche da motivazioni personali. Leggete, leggete...

ROMA, 4 gennaio 2008 - Questa è una storia che parte dalla morte per arrivare alla vita. C’è un ragazzo che non ce l’ha fatta, una ragazza che si è salvata e tanti altri che sono nel mezzo. Ragazzi da aiutare attraverso lo sport. Proprio per essere stato toccato in prima persona un uomo si è mosso ed ha fatto muovere una delle maggiori società di calcio del mondo. Quest’uomo è Mario Brozzi, medico sociale della Roma e professore all’Università di Tor Vergata. Grazie al suo impegno (ma non solo) da quest’anno trentamila atleti affiliati alle ottanta società satelliti del club giallorosso potranno usufruire di un protocollo sanitario identico a quello del calcio professionistico italiano. Perché casi come quello di Puerta (Siviglia) e O’Donnell (Motherwell) non debbano accadere mai più, neppure nei campi di periferia.
Professore, il suo progetto si chiama «Sport per la vita». Come nasce?
"Nasce dal fatto che in Italia non si è ancora compreso come lo sport sia una cosa seria. Il paradosso è che noi tuteliamo i ricchi e trascuriamo i poveri. Nel senso che i nostri protocolli medico-sportivi sono all’avanguardia nel mondo, ma i rischi sono spostati in basso, dove ci sono giovani inconsapevoli dei problemi, soprattutto perché la medicina scolastica non dà garanzie e ora non c’è più neppure lo screening dei "tre giorni" del militare. Cioè, se da una parte è un orgoglio vedere scoperti casi come quelli di Kanu e Fadiga (interisti bloccati per problemi cardiaci, ndr) o leggere giornali spagnoli che dicono: "Puerta in Italia non sarebbe morto", dall’altro c’è da lavorare".
E proprio per questo si è mosso?
"Sì, due episodi accaduti a poca distanza l’uno dall’altro per certi versi mi hanno cambiato la vita. Nel 2006 un ragazzo di 16 anni, Giorgio Castelli, è morto in un campetto di periferia, a Tor Sapienza, tra le braccia del fratello gemello. Non sapeva di avere una patologia cardiaca simile a quella di Puerta. Quel lutto ha spinto suo padre Enzo a creato una Fondazione ed il sindaco Veltroni, sensibile a questi temi, a convocare me e Vito Scala (il preparatore di Totti, ndr) per chiederci di fare qualcosa. Poi poche settimane dopo è successo altro".
Che cosa è accaduto?
"Vede, io sono un bell’uomo, famoso, abbastanza ricco, ma all’improvviso mi è crollato il mondo addosso quando ho scoperto che mia figlia Valeria, 17 anni, soffriva di anoressia. Il suo importante papà non aveva abbastanza tempo per lei e questo è stato il suo modo per comunicarmelo. A un certo punto è stata 28 giorni senza toccare cibo, arrivando a pesare meno di 40 kg pur essendo alta quasi un metro e settanta. L’ho insultata, l’ho picchiata e mi sono quasi arreso quando lei mi ha detto: "Non mi interessa vivere in questo mondo". Ecco, io allora ho chiesto a Valeria: "Se non posso farti cambiare idea, aiutami almeno a migliorare la vita di chi verrà dopo di te". Da quel momento in lei qualcosa è scattato, si è tuffata nel mio progetto e ora per fortuna sta bene, lavora al nostro sito e collabora anche con un quotidiano".
Qual è adesso il suo obiettivo?
"Portare lo stesso protocollo sanitario dello sport agonistico a tutti i livelli. In questo ho trovato la piena adesione di Rosella Sensi e dal 2006 la Roma è l’unico club italiano che controlla gli atleti delle giovanili come quelli della prima squadra. Ma non ci basta. Da oggi a settembre renderemo obbligatori questi controlli per tutti i trentamila atleti delle 80 società affiliate alla Roma. I costi? grazie al coinvolgimento del centro di medicina sportiva Villa Stuart e dell’assicurazione Aurora, riusciremo a far spendere alle famiglie solo 8 euro al mese. Ogni atleta avrà una sua medical card inserita in una banca dati sempre aggiornata e che avrà la mia supervisione. Vogliamo creare una Consulta giovanile sportiva chiamata a scrivere il primo Decalogo etico dello sport. Perché il messaggio dev’essere questo: niente più morti improvvise, tutela della salute e creazione di regole etiche condivise e non imposte. Così sarà più facile dire no anche all’abuso di farmaci e al doping come scorciatoia. La Scuola di Etica dello Sport dell’Università di Tor Vergata, di cui sono il direttore, nasce anche per questo".
E questo è un modo per affrontare il disagio giovanile?
"Esatto. Non dimentichiamo che in Italia il 30% dei giovani soffre di disturbi alimentari, il 62% dichiara di usare stupefacenti, 37% di far saltuariamente abuso di alcolici, l’1% di assumere psicofarmaci. Ecco, noi dobbiamo salvaguardare la loro salute e il loro futuro anche attraverso lo sport. Da ora in poi qui a Roma vogliamo farlo sul serio, a qualsiasi livello".
Massimo Cecchini

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